La buona scuola: il Jobs Act nell’istruzione

Una ristrutturazione selvaggia chiamata “riforma”
2010: la riforma Gelmini taglia seccamente posti di lavoro con due semplici mosse: introduzione del maestro unico e riduzione delle ore di lezione, Risultato: perdita di posti di lavoro docenti e non, perdita di ore di insegnamento per gli studenti
2015: dopo appena 5 anni e varie leggi di stabilità che hanno continuato a tagliare posti di lavoro e ad aumentare il numero di alunni per classe, la riforma Renzi- Giannini stucchevolmente denominata “la buona scuola” modifica radicalmente l’assetto della scuola pubblica, che assume un impianto rigidamente aziendalistico, senza eguali nel pubblico impiego:
– perdita della titolarità per il personale a tempo indeterminato
– chiamata diretta del preside , che può assumere discrezionalmente senza seguire criteri omogenei
– immissione in ruolo per una platea ristretta di precari, con posizione diversificata (su posto reale o su organico tappabuchi)
– valutazione del personale per l’attribuzione di salario accessorio affidata anche a soggetti esterni al rapporto di lavoro
– intervento del privato (sponsor) con finanziamenti e donazioni
– introduzione massiccia dell’apprendistato (fino a 400 ore annue, pari a circa 12 settimane di scuola in cui lo studente cessa di essere tale per divenire un apprendista affittato al mercato della precarietà).
Oltre agli effetti diretti di queste misure, la riforma punta anche un potenziamento della gerarchia già presente nella scuola, con rigido controllo delle metodologie didattiche, degli stili di apprendimento, degli orientamenti culturali, con la diffusione generalizzata della impostazione competitivo meritocratica e della logica produttivistica sia tra gli studenti che tra i docenti.
Le linee ispiratrici di questa politica sono rintracciabili con chiarezze nelle indicazioni sistematicamente fornite ai governi da associazioni – una per tutte la famigerata TREELLE- che comprendono nomi di spicco del settore confindustriale, bancario, delle organizzazioni cattoliche, evidenziando un’illuminante convergenza tra destra imprenditoriale e grandi nomi del PD.
Ma ovviamente queste direttrici si intrecciano con quelle più generali, riconducibili agli orientamenti europei che hanno determinato, nel tempo, la ridefinizione del settore scuola sopratutto nella ricerca di uno standard. Lo standard è un elemento fondamentale nella logica produttivistica, basata sulla definizione delle caratteristiche di un prodotto e nella misurazione delle fasi della lavorazione finalizzata a produrre “quel” prodotto. Per misurare occorre segmentare, suddividere in fasi, analizzare il processo produttivo per verificare la qualità del prodotto finale.
Da qui i vari test nazionali (Invalsi), internazionali per le scuole superiori (OCSE PISA, commissionato, tra gli altri, da settori economici privati WTO), internazionali per l’università (processo di Bologna) tutti rivolti a valutare qualità e produttività secondo uno standard
Ma che cosa significa produttività a scuola? Significa favorire il processo di crescita di ciascuno, secondo le proprie caratteristiche e i tempi individuali di maturazione o significa escludere, selezionare, scartare? E’ più produttivo e quindi meritevole anche di un maggior stipendio l’insegnante che boccia o quello che promuove? Che cosa misuriamo ? la quantità di promossi oppure di bocciati? Che cosa significa tendere ad uno standard in un contesto che dovrebbe valorizzare l’individualizzazione dell’insegnamento e lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno? E riferirsi ad uno standard, non significa forse escludere totalmente chi è per ovvi motivi fuori standard, come il disabile, lo straniero, l’alunno in svantaggio sociale e culturale ?
Per la sua tipicità, il settore dell’insegnamento non è sensatamente riconducibile ad un sistema di misurazione di produttività. Ed allora, volendo a tutti i costi seguire questa strada, nell’impossibilità di misurare l’essenza della relazione educativa, si agisce sul livello sovrastrutturale surrettiziamente introdotto con la radicalizzazione della gerarchia, la precarizzazione dei posti di lavoro, la figura del preside sceriffo che i criteri se li inventa, per esibire una logica del controllo spacciata per valutazione del merito e della produttività.

Un anno di lotte
L’opposizione alla riforma Renzi-Giannini è stata fin dall’inizio molto vasta ed ha coinvolto, oltre a moltissimi lavoratori, l’intero arco delle sigle sindacali, tanto che il Governo, per arrivare velocemente all’approvazione, ha dovuto rompere ogni contatto con le parti sociali e procedere con tutto l’autoritarismo possibile, niente concedendo nemmeno a banali norme di galateo democratico.
Se l’unità è sempre apprezzabile, va comunque sottolineato che i sindacati di stato hanno promosso nel tempo una serie di interventi che hanno costituito i presupposti della riforma Renzi, ultimo atto, per ora, di un processo preparato da anni. La logica del merito e della valutazione “oggettiva” è patrimonio innegabile dei sindacati concertativi, così come il potenziamento dell’autorità dei presidi, nato nell’ambito del Regolamento dell’autonomia partorito oltre quindici anni fa da Luigi Berlinguer, ministro caro alla CGIL e portato avanti da un altro ministro amico della sinistra come Tullio De Mauro, nome presente, tra l’altro, nella fondazione TREELLE.
D’altra parte la malafede degli oppositori dell’ultima ora è stata ben visibile recentemente: dopo lo sciopero dello scorso 5 maggio contro la Buona scuola, nessuna iniziativa è stata intrapresa per sostenere lo sciopero contro l’Invalsi, promosso dai sindacati di base ma di fatto boicottato dai sindacati “maggiormente rappresentativi” Eppure l’Invalsi è un elemento cardine di quel sistema valutativo contro il quale ci si mobilita…
A fronte delle ambiguità di alcuni vertici sindacali, va però sottolineata la grande mobilitazione che i lavoratori e le lavoratrici della scuola, spesso sostenuti da settori studenteschi, hanno espresso nell’ultimo anno: scioperi, mobilitazioni, appelli, documenti votati da assemblee e organi collegiali, manifestazioni di piazza di vario tipo, occupazioni, blocchi degli scrutini che hanno interferito anche con gli esami di stato. Questo ampio e determinato fronte di lotta deve mantenere la coesione e la solidarietà che lo ha caratterizzato contrastando in modo deciso l’attuazione della riforma, con una mobilitazione decisa, costante e quotidiana, senza lasciarsi fuorviare da miraggi legalitari.

Il bluff della legalità
Il modo in cui si è arrivati all’approvazione della riforma dimostra chiaramente come la legalità democratica sia un bluff.
Il governo, sottraendosi a qualsiasi confronto e/o ricerca di consenso ha proceduto chiedendo la fiducia sul disegno di legge. Il Senato, pur avendo rilevato in commissione l’incostituzionalità di alcuni aspetti della riforma, ha comunque approvato. Il testo approvato in Senato, ulteriormente emendato dalla Camera, non è stato sottoposto all’ultima ratifica del Senato. E il presidente Mattarella, incurante di tutto ciò, ha ovviamente firmato. Di fronte a queste aperte violazioni di regole che l’apparato stesso si è dato, appare del tutto fuori luogo confidare, come molti stanno facendo, in un referendum abrogativo che spazzi via la riforma.
Il referendum, qualora fosse fatto, avrebbe probabilmente un risultato contrario alle aspettative dei promotori, visto che a pronunciarsi non sarebbe esclusivamente la categoria. Ed anche in caso di risultato diverso, è sotto gli occhi di tutti come gli esiti referendari siano stravolti e disattesi dalle logiche politiche. Quindi un eventuale referendum avrebbe il solo risultato di allentare il fronte delle lotte, spostando tutto sul piano del voto e determinando una battuta d’arresto nella mobilitazione. E’ indispensabile radicalizzare l’opposizione alla riforma, contrastarne l’attuazione sui luoghi di lavoro attraverso forme concrete di boicottaggio, senza trascurare le pratiche di solidarietà, tanto più necessarie in un momento di inasprimento autoritario. Altrettanto indispensabile sarà costruire legami più solidi con gli studenti e collegarsi alle lotte dei settori più combattivi delle varie categorie, per opporsi a questa che non è una riforma, ma l’estensione del Jobs Act nella scuola.

Patrizia

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